Ieri sera, leggendo Oceano mare, regalatomi dalla mia cara amica Valeria (che compie gli anni oggi, buon compleanno ❤️), mi imbatto nel personaggio del professor Bartleboom e mi si spalancano le palpebre.

Posa la penna, piega il foglio, lo infila in una busta. Si alza, prende dal suo baule una scatola di mogano, solleva il coperchio, ci lascia cadere dentro la lettera, aperta e senza indirizzo. Nella scatola ci sono centinaia di buste uguali. Aperte e senza indirizzo. Ha 38 anni, Bartleboom. Lui pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua donna. Ogni tanto si rammarica che il destino si ostini a farlo attendere con tanta indelicata tenacia, ma col tempo ha imparato a considerare la cosa con grande serenità. Quasi ogni giorno, ormai da anni, prende la penna in mano e le scrive.
Non ha nomi e non ha indirizzi da mettere sulle buste: ma ha una vita da raccontare. E a chi, se non a lei? Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello posarle sul grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle
Ti aspettavo.
Lei aprirà la scatola e lentamente, quando vorrà, leggerà le lettere una ad una e risalendo un chilometrico filo di inchiostro blu si prenderà gli anni — i giorni, gli istanti — che quell’uomo, prima ancora di conoscerla, già le aveva regalato. O forse, più semplicemente, capovolgerà la scatola e attonita davanti a quella buffa nevicata di lettere sorriderà dicendo a quell’uomo
Tu sei matto.
E per sempre lo amerà.

Quanto mi rende felice sapere che io e Ted Mosby non siamo gli unici inguaribili romantici incredibilmente innamorati di una persona che ancora non abbiamo incontrato.

Come Sabrina mi ripete continuamente, io e Ted (e Bartleboom) non siamo capaci di cominciare le relazioni perché ci aspettiamo di trovarci già dentro. Cerchiamo l’amore più che una persona da amare. Inconsapevolmente, colei che è oggetto e soggetto di ogni nostro pensiero romantico non è che la personificazione di un sentimento afrodisiaco che io sento di poter raggiungere per quanto tuttз mi dicano sia impossibile.

Mi addormento sorridente per aver trovato un altro personaggio fittizio che condivide i miei film mentali. Non una persona reale, ma insomma, è comunque motivo di celebrazione.

Una manciata di ore dopo, sono svegliato dall’ansia di dover scrivere una comprensione di un estratto de L’etre et le néant, di cui non capisco quasi nulla, scopro che avrei dovuto inviarla ieri e non domani, come credevo.

Esattamente come il senso comune detterebbe, invece di affrettarmi a scrivere qualche riflessione un minimo sensata che non faccia rivoltare Sartre nella tomba, camminando verso la biblioteca, per ragioni a me ignote decido di andare a recuperare l’edizione di Le canzoni di venerdì 24 gennaio 2020. Così, de botto.

Colpito da quanto una decisione pressoché casuale e pressoché scellerata mi colpisca nel profondo, penso che dovrei proprio condividere come l’amore domini le mie giornate seppur io non sia innamorato. Decido dunque di scrivere una bella email della mia newsletter, che non scrivo da un anno. Così, de botto.

Love to a stranger

Non me ne voglia il peraltro direttore del Post Luca Sofri se incollo di seguito un contenuto riservato agli abbonati, ma di quasi tre anni fa.

Due anni fa ero andato a vedere Ben Folds a Londra, visto che in Europa non viene quasi mai. Una volta lì avevo scoperto che il giorno dopo c’era anche Joan Baez alla Royal Albert Hall, e volevi non andare? Joan Baez ha appena compiuto 79 anni (ha 15 giorni più di Neil Diamond, che li compie oggi) e non so voi, che avrete vite ed età diverse e varie, ma a casa mia c’è sempre stata. Alcune copertine dei suoi dischi facevano parte dell’arredamento, e un po’ sono molto belle e un po’ sono delle madeleines e nel tempo me le sono ricomprate, che va’ a sapere in quale cassapanca siano finite a casa di mia madre. Ma insomma, non è che adesso arrivo io e vi spiego una leggenda come Joan Baez (avendolo peraltro minimamente già fatto). Love song to a stranger la scrisse lei per un amore tormentato, su cui poi ebbe dei ripensamenti che raccontò molto in giro, e fece pure una parte 2 con pensieri piuttosto rivisti (si concludeva con love is a pain in the ass). Ma al di là del suo caso personale, la canzone - che uscì nel 1972 - resta bella assai.

e allora:

You’re mainly a mystery with violins filling in space
[…] I sank and I slept in the twilight with only one care
To know that when the day broke and I woke
That you’d still be there
You’d still be there

Come faccio io, povero ventiduenne completamente romanticamente illuso e immaturo a non farmi sedurre da questa whimsical concezione di amore? Che poi questa canzone parla di una cosa di soli due giorni fra due sconosciuti che mai si rivedranno però accidenti, non è favoloso?

E io ora invece che scrivere di néantisation vorrei sprofondare in the twilight e ammirare ammaliato le coppie che si coccolano di fronte a me e leggere di amore e scrivere di amore e non di quello che pensa Sartre ma di quello che Sartre era con e per Simone de Beauvoir ma pazienza, il dovere e con esso una realtà dove le emozioni e l’amore non abitano in semplicità nelle pagine di un libro, ma in cuori più confusi, complicati e, per ora, sconosciuti.

Buona giornata d’amore.
Tommi